Su richiesta di Traudi, vi metto qui la storia di Nava che ho scritto per il forum dei cani.
Bacions a tutti...
C’era una volta il deserto del New Mexico, sotto il sole di luglio.
C’era una volta un cucciolo, in mezzo al deserto, non si sa come, non si sa perché. Senza mangiare, senza bere, sola, aspettava.
Aspettava me, che dovevo arrivare da migliaia di chilometri di distanza: proprio in quel momento, quel giorno, proprio lì e non altrove una macchina si sarebbe fermata (per puro caso!), io ne sarei scesa, e l’avrei vista. Avrei visto due orecchie rosse e attente in mezzo alle pietre e agli sterpi.
Non esiste un’immagine di quel momento, ma il posto è questo
e così posso ricostruire quello che successe allora
quando trovai Nava, sola e sperduta, troppo timorosa per avvicinarsi ma già così fiduciosa nell’umanità (quella stessa umanità che l’aveva abbandonata a morire di fame e di sete) da abbassare le orecchie e scodinzolare appena le si parlava. No, non era un animale selvatico, nonostante le apparenze, e dopo un lungo appostamento riuscimmo a convincerla ad avvicinarsi e a salire in macchina.
Quando l’uomo del canile venne a prenderla e mi disse che dopo otto giorni l’avrebbero “addormentata” se non fosse stata adottata da qualcuno - e lei stava lì in braccio a lui, tutta tesa e tremante, con gli occhioni a mandorla spalancati, incredibilmente piccola (solo quattro mesi) e fiduciosa - cosa avrei potuto fare se non scoppiare a piangere (fra l’imbarazzo di tutti) e portarla via subito? Vivevo a Firenze con mia nonna allora, avrei tanto voluto un cane, le difficoltà c’erano ma dopo mezza giornata di viaggio fino a Santa Fè (come nei film western) avevo già studiato tutte le soluzioni possibili...
Furono i miei amici americani ad aiutarmi a preparare tutto per la partenza (avevamo solo un giorno di tempo), a comprare tutto il necessario, a portarci dal veterinario ([URL]http://www.sdcah.com/.NET/Default.aspx) per i controlli e le vaccinazioni. E il nome fu subito Nava, perché quell’inospitale e bellissimo pezzo di deserto dove era stata abbandonata e ritrovata altro non era che una riserva dei Navajos.
Certo il consolato italiano non fu di molto aiuto, visto che risultò impossibile avere per fax il semplice modulo che mi avrebbe garantito un’entrata “in regola” in Italia. E così partimmo: senza i documenti giusti e con davanti la prospettiva di due voli in aereo, uno di cinque e uno di sette ore. E alla fine tutto andò bene. Nava superò benissimo il viaggio nella stiva, alla fine ero molto più stressata io al pensiero di lei chiusa nel trasportino e di quello che sarebbe potuto succedere. A nessuno venne in mente di fermarci per chiederci i certificati di vaccinazione e buona salute, che c’erano, sì, in triplice copia, con timbri e firme, ma non erano validi per l’Italia solo perché mancava quel famoso foglio. E meno male che non sono solo i consolati ad essere inefficienti.
Autobus, poi tre ore di treno, con la museruola per di più, e Nava già dimostrava una docilità e una tranquillità di carattere fuori dal comune. Arrivammo a Firenze alle otto di sera, sfinite, dopo due giorni di viaggio.
Con un mese di tempo, prima del ritorno della nonna dal mare, per adattare Nava alla vita in casa e pensare a come farla convivere con una persona anziana senza creare problemi a nessuna delle due.
Non fu certo difficile. Nava era bravissima, ci volle solo un po’ di tempo perche imparasse a trattenere la pipì. La portavo con me dappertutto, al lavoro, al WWF, e lei mi seguiva docilmente (ricordo ancora come crollava, stanchissima, ai semafori - non ero più abituata ad avere un cucciolo e spesso la facevo camminare troppo). E poi si metteva lì buona buona e mi aspettava (salvo ripulire i cestini della spazzatura se la perdevo di vista).
In quei giorni la guardavo, lì accucciata sul tappeto di camera mia, e mi domandavo: ma davvero è QUEL cane? Quello che ho visto nel deserto? Davvero l’ho portata qui? Per mesi ha continuato a sembrarmi la cosa più assurda del mondo, eppure ero così contenta. Mia nonna era una vera nonna e avrebbe accettato anche un rinoceronte pur di farmi piacere, figuriamoci una creatura così dolce, composta e aggraziata che già a sei mesi potevo lasciare da sola senza problemi. Mi raccontava sempre di quando lei usciva sul terrazzino (dove Nava stava, per ragioni di sicurezza nonnesca, le rare volte in cui dovevo lasciarla a casa) e il piccolo coyote stava lì sdraiato buono buono, mezzo fuori dalla sua cuccia, e la guardava. Senza nemmeno tentare di avvicinarsi o di entrare in casa.
Perché naturalmente, per tutti, lei era “il coyote”, per la sua storia e per il suo aspetto selvatico.
Ma anche i piccoli coyotes hanno bisogno di una zia, e Nava si fece subito adottare dalla lupa dei miei genitori. Mizar non era molto amante del contatto fisico, ma sopportava pazientemente quella creatura appiccicosa che le voleva dormire sempre a fianco
anche da adulta...
Solo per puro caso, e per grande fortuna, si può trovare un cane così meraviglioso, bravo e intelligente in mezzo a un deserto, a migliaia di chilometri di distanza da casa.
E che dire di quella pelliccia rossa morbidissima, da vera volpe, e della macchiolina bianca sul collo che inteneriva tutti e scatenava orge di grattini? E quella buffa coda a pennello?
E il suo sguardo? Nava ti guardava dritto negli occhi e sembrava che si sforzasse di capire quello che dicevi. A volte aveva un’espressione così intelligente e attenta da essere quasi inquietante. Ti aspettavi che da un momento all’altro aprisse la bocca e si mettesse a parlare.
Aveva una gamma vocale incredibile, che con gli anni avevo imparato a conoscere, dal brontolio basso di richiesta all’ululato da vero coyote, col muso puntato al cielo, che poche volte le ho sentito fare. Forse c’era davvero stato un Basenji fra i suoi antenati.
E soprattutto, era felice della vita. Una mia amica la chiamava “il cane che ride”.
Non amava molto Alice-gattastro, perché ne era molto gelosa...ma non si può avere tutto, e comunque era troppo disciplinata per farle del male seriamente.
Ecco la famosa cuccia, costruita da mio padre e dipinta da me: la “Nava’s Hacienda”.
Con le amiche ai giardini, nel 1997
In campagna dai miei, dopo il bagno, nel 1997
All’Elba nel 1998
[
In montagna, all’Alpe di Devero, nel 1999
A casa dei miei a Gorgonzola, nel 2000. L’unica volta che non ho potuto portarla in vacanza con me (in Bretagna). Non per mia decisione, ovviamente (sgrunt).
All’Elba nel 2000, sulla spiaggia d’inverno, alle prese con la sua amata pallina
In campagna da amici, nel Chianti, 2001
A Cavalese, nel 2002
All’Elba nel 2002, in abito natalizio
Una delle sue famose pose composte da “coyote inglese”
e il divano, che è diventato la sua cuccia, insieme col mio letto, quando siamo andate a vivere per conto nostro. Come si può resistere a un animale così morbido, coccoloso e quasi totalmente inodore?
Il suo appetito era leggendario, così come la capacità di scovare cibo ovunque (il concetto di “cibo” ovviamente era molto vasto) e di digerire qualunque cosa...
Nava aveva una muscolatura potentissima e dei riflessi incredibili. Il gelataio vicino a casa mia si ricorda ancora di quando gliela portavo in negozio e lei si metteva a saltare sul posto, da seduta...dei salti altissimi che avevano l’unico scopo di attirare la sua attenzione e mendicare il famoso “gelatino” per cani. Con grande successo di pubblico (avrei potuto girare col piattino a raccogliere le offerte...)
Con tutto ciò, era estremamente docile, e quando abbaiava contro un altro cane riuscivo a tenerla con un solo dito. Non è mai stato un problema portarla con me, dovunque andassi. Eravamo sempre insieme, io e la mia piccola appendice pelosa.
Con gli anni lo sguardo da coyote si era addolcito, il muso da volpe si era arrotondato e un po’ imbiancato, ma rimanevano intatte la fittissima pelliccia, la grazia e l’agilità dei movimenti sempre “precisi” e composti, l’incredibile forza del salto, che la facevano sembrare, sempre e comunque, un’abitante della foresta e della prateria...lei, che era un tranquillo ed educatissimo cane d’appartamento...
A Vallombrosa, 2004
In campagna, 2005
In casa, sempre molto “british”
Tutto questo è finito un freddo, freddissimo giorno di gennaio del 2006. Nava non ha mai visto il suo decimo compleanno.
Dopo due giorni terribili, alle otto di sera, dopo ore di tentativi per farla uscire dal coma in cui era entrata, ho dovuto accettare l’inevitabile. Solo quando ho sentito che il suo respiro si faceva sempre più lento e diventava un rantolo, ho capito che non c’era più speranza, che stava andando dove non la potevo più seguire.
Ringrazierò sempre la veterinaria che ci ha accompagnato a casa e ci è rimasta accanto fino alla fine.Se non ci fosse stata lei, a dirmi che era finita, che quel cuoricino di coyote non batteva più, chissà quanto tempo sarei stata a spiare inutilmente un respiro che non veniva più, a toccare una pelliccia così morbida che diventava sempre più fredda.
Ho capito - per la prima volta fino in fondo - quanto è grande lo strazio di chi si sente chiedere gli organi di una persona che amava molto e che se ne è appena andata, troppo presto e troppo rapidamente, giovane e sana. Perché io non solo non sono riuscita a permettere l’autopsia, ma ho pianto anche quando ho portato il corpo di Nava in terrazza. Era così freddo, quella notte! E io dovevo abbandonarla lì fuori, sola!
La mattina dopo sono andata a seppellirla, in campagna, sotto quell’erba su cui tante volte aveva giocato. La terra era gelata e ho dovuto scavare per ore col piccone, ma è stato l’unico momento in cui non ho sentito dolore, perché mi sembrava di fare l’unica cosa che potevo fare - per lei e per me.
Per metterla al sicuro, e lasciarla tornare da dove era venuta.
E’ stato così difficile affrontare i giorni che sono seguiti. Perfino la gatta si sentiva persa e non si staccava un attimo da me. Per mesi non sono andata in quei negozi dove sapevo che proprietari e commessi si sarebbero protesi a guardare oltre il bancone, cercando in quello spazio vuoto qualcuno che non c’era più. Con enorme difficoltà sono riuscita a dire ai miei amici quello che era successo. Ma ho vissuto male, male, male, perché quel vuoto accanto era troppo doloroso. Ci è voluto più di un anno perché cominciassi a stare meglio. E tuttora c’è una parte di me che è stata mutilata e non ricrescerà mai più.
Nava è - probabilmente - morta avvelenata. L’ho salvata una volta dalla crudeltà degli umani, e ho avuto in cambio dieci anni meravigliosi. Non ce l’ho fatta a salvarla la seconda volta. Ma nessuno avrebbe potuto farlo.
Non esistono parole per definire chi uccide un animale innocente e tanto amato, senza un perché. A volte penso che è un bene che io non possa essere sicura di quello che è successo. Perché altrimenti mi porterei dietro anche il peso di un odio incommensurabile.
Questo l’ha scritto per me un’amica:
Cara Laura, quando succedono queste cose le parole sono sempre misere e inadatte.
Ti posso solo dire che ti sono vicina, il tuo dolore lo conosco benissimo, ci sono passata anch'io non tanto tempo fa; è come vivere senza un pezzo di te, è girare per la casa aspettando sempre che il tuo Amico compaia per fare quelle cose buffe o per compiere quei gesti che solo Lui fa, e poi ti accorgi che questo non accadrà mai più.
Tutto ciò è puro e terrificante Dolore.
Mi dispiace tanto, Laura, perchè Nava è stata la tua Seconda Anima.
Addio, piccolo topo dolce. Tutto quello che ho scritto finora è solo una minima parte di quello che potrei raccontare di te e di quanto ti ho voluto bene.
And thank you for the abandon of your giving,
For seeing in the dark, for making this life worth living.
[Modificato da thevivons 11/10/2007 13:41]