Intervista a Paolo Pejrone

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xypod
00martedì 16 giugno 2009 13:11
Ho trovato girando per la Rete questa intervista. E' datata ma mi è sembrata davvero interessante per alcuni concetti e osservazioni che personalmente non mi sarei aspettata. Spero vi piaccia!



Intervista a Paolo Pejrone da Stefano Lorenzetto per Il Giornale

Si dice che il mestiere più antico del mondo sia quello. Be’, non è quello. Non quello che pensate voi, che pensiamo tutti. È un altro. Basta rileggere il Genesi, dove fin dalla prima riga si parla di terra, seme, alberi, frutti, germogli, erba verde, cespugli, acqua per irrigare. «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse». Quello è il mestiere più antico del mondo. Coltivare e custodire.

Paolo Pejrone, piemontese all’antica, non poteva far altro che il mestiere più antico del mondo: il giardiniere. Non che s’offenda se lo chiamano architetto, titolo che s’è conquistato «con grande fatica e senza lode» al Politecnico di Torino. Ma è più contento se gli danno del contadino. In questi giorni è scappato via dal suo eden di fragole e sequoie, insalatina e bambù, camelie sasanqua e begonie evansiana sulle colline di Revello, nel Cuneese. Per non vedere. Non ce la faceva più, alzandosi dal letto, a guardare la pergola prostrata da una nevicata assassina. «Tutto distrutto... I rami dei lecci spezzati, il mio orto coperto di sabbia rossa del Sahara... Un dolore insopportabile, fisico». Piangeva appena sveglio. Del resto solo i grandi piangono, e lui è un grande.

Ha sconvolto persino Rocco, il fido aiutante («un po’ pigro, invero») che lo assiste nella tenuta («quanto sarà vasta? ma lo sa che non lo so? boh, saranno 4-5 ettari») e che pure alle lacrime del signor architetto ha ormai fatto l’abitudine. Alle 10, scodellandogli la posta sul tavolo, Rocco chiede sempre: «Porto il fazzoletto?». Perché Pejrone - non prova vergogna a confessarlo - si commuove nell’aprire la corrispondenza dei lettori, moltiplicatisi dopo l’uscita di due libri, In giardino non si è mai soli e Il vero giardiniere non si arrende mai, che hanno venduto in breve tempo oltre 100mila copie, lasciando sbalordito per primo l’editore Feltrinelli. Dai sottotitoli dei best seller si comprende la vera natura di questo filosofo del verde: Diario di un giardiniere curioso il primo, Cronache di ordinaria pazienza il secondo.

Un superficiale potrebbe ritenere che lo strepitoso successo editoriale sia propiziato dal fatto che Pejrone è stato l’architetto dei giardini di Villar Perosa e di Villa Frescot, dunque il botanico di fiducia di Gianni e Marella Agnelli, nonché di Mary de Rothschild, vedova del barone Alain, dell’Aga Khan Karim, di Carlo De Benedetti, di Valentino, dei principi Borghese, degli Sforza, degli Odescalchi, dei Rossi di Montelera, dei Sanjust, dei Recchi, di Anna Bonomi Bolchini, di Romilda Bollati di Saint Pierre, di Isa Parodi Delfino, fino ad avere in cura l’orto attiguo alla basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme dove Sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, portò le reliquie del patibolo di Gesù ritrovate in Terrasanta nel IV secolo.

Errore. La fortuna arride a questo dandy sessantaduenne dall’eloquio forbito e dalla simpatia avvolgente - che l’Avvocato un giorno definì con un solo aggettivo: «variopinto» - perché non ha paura di lordarsi le mani con la terra («non indosso mai i guanti da lavoro») e poi di tenerle in ammollo nell’acqua calda un’intera giornata per renderle nuovamente presentabili nei salotti buoni. Dove la sera va a narrare storie fantastiche. Come quella della passeggiata su una spiaggia della Nuova Zelanda col famoso pittore Peter Volkonsky, quando udì un urlo strozzato - «Ah! La demidoffia!» - e vide l’amico chinarsi a mangiare le foglie di una pianta selvatica. «Era tetragonia. Uno spinacio buonissimo. Solo che Peter, costretto a fuggire dalla Russia dopo la rivoluzione bolscevica, non tollerava che noi la chiamassimo tetragonia, anziché col nome originale che le era stato dato in omaggio al principe Demidoff. Del resto gli inglesi di recente sono riusciti nell’impresa di ribattezzare landrovery una pianta dell’Afghanistan... Manco crescesse in garage».

Sostiene Pejrone (non Pereira) che un onesto e sapiente giardiniere ha a che fare con delle vite. Di più: con delle personalità. «Ogni pianta, ogni fiore, ogni ortaggio hanno un’identità e l’identità si porta appresso bisogni, modi, persino capricci. Il rapporto con la terra e le piante è fatto di ostinazione, di prove, di interventi che misurano la tenzone fra l’innamorata intelligenza del giardiniere e la stizzosa resistenza di una flora dipinta incautamente dalla nostra immaginazione come gentile. Il vero giardiniere è uno psicologo delle radici. Nulla è semplice in un giardino, a cominciare dalla terra».

«È dura la terra, è bassa la terra», predicò il vescovo di Vicenza ai funerali di Antonio e Maria Rosa Maso, contadini uccisi da un figlio che non voleva piegare la schiena. «Io cominciai a farlo a 5-6 anni e sarò sempiternamente grato a Giovanni e Maria, due giardinieri di Valsalice, sulla collina di Torino, che mi diedero il primo fazzoletto di terra da coltivare. Ero il quinto figlio di una famiglia chiassosa. Lì cominciai a coltivare le mie prime insalate, lì imparai ad allevare i polli, lì vidi nascere i gattini. Scendevo di 100 metri per andare a scuola e i miei compagni non sapevano che cos’era una bacca. La domenica loro andavano al cinema. Io seminavo i ravanelli. Ero uno spostato. Finché a 14 anni, un giorno di giugno, persi il mio mondo».

Che accadde?
«La fattoria venne venduta a un convento di suore. Per me fu uno strappo fortissimo. Dovetti crescere all’improvviso. Chi non l’ha provato, non può capire che cosa significhi non potersi voltare indietro, non rimettere mai più piede nel luogo dell’anima dove si è stati felici. Non ho mai pensato di ritrovare quel giardino. Però ho passato tutta la vita a cercare di ricostruirlo. Il giardino non è il vialetto, la ghiaina, la siepina, l’aiuoletta. Il giardino vero è quello della memoria, dove un calicanto ci ricorda una persona cui abbiamo voluto bene».

Perché ha fatto tanta fatica a laurearsi?
«Perché mi annoiavo. Non bisogna aver paura della noia. Però c’è».

In giardino non si annoia?
«Non avere un tetto sopra la testa cambia la vita. Il giardino è fatto di profumi, rumori, acqua, rugiada, calma, tempesta. Tu esci al mattino e pensi: me lo sono meritato tutto questo? Un mio cliente, il multimiliardario sir Jimmy Goldsmith, aveva comprato una vasta proprietà in Borgogna. Mi disse: “Il posto mi piace tanto, però mi tolga i pini. Mi ricordano troppo la Germania...”. Essendo ebreo, bisognava capirlo. Erano 400 ettari di conifere. Dopo un anno non restava più né un pino né un abete. Ho piantato migliaia di alberi che richiamassero gli uccellini. Era diventato un mondo vivo, fresco, allegro. Una cassa armonica».

In Italia siamo alla giardinomania. Davanti ai vivai ci sono più auto che nei parcheggi degli stadi e in ufficio si discute sulle bulbose. Non si sente colpevole d’aver contribuito a trasformare una passione elitaria e snob in un fast food?
«Se tolgo qualche lettore a un libro di cucina sono felice. Se ci sarà qualche cuoco in meno alla televisione sarò ancora più felice».

Con chi ce l’ha?
«Con l’Italia degli eufemismi. Che un cuoco pretenda di farsi chiamare chef e un sarto stilista, mi pare tremendo. Sentire i presentatori che in televisione danno addirittura del maestro a Gianfranco Vissani è insopportabile. Ma che cos’ha di tanto speciale ’sto uomo?, chiesi una volta all’Avvocato. “È un cuoco”, mi rispose. “Però di regime”. Io sono felice se mi danno del giardiniere. Architetti ce ne sono migliaia, come i cuochi. Giardinieri non ce ne sono più. Eppure fummo noi italiani a portare i giardini nelle regge di Francia, con Caterina de’ Medici e i Francini, maestri delle fontane. Non è un lavoro infame, sant’Iddio. Mettersi per terra a quattro zampe e piantare, tagliare, pulire, pacciamare... ah, che meraviglia!».

Lei scrive: «Il vero giardiniere deve coltivare l’arte della pazienza». Nel mondo d’oggi s’è persa, la pazienza.
«Un gran lusso. La pazienza è rarissima. La pazienza è bellissima. Tutti i giorni me la impongo. Di natura sarei un po’ nevrotico. L’ultima volta che il mio aiutante mi ha chiesto un aumento di stipendio, gliel’ho concesso a una condizione: che al mattino, quando viene a prendere ordini, mi faccia un sorriso».

Da chi ha ereditato la passione per il giardinaggio?
«Da mia nonna Natalie. Rimasta orfana, fu sbattuta in campagna da una zia. Anzi fu venduta, perché aveva una buona dote. Sposata a 18 anni, si sentì dire dalla suocera, durissima, piemontesissima: “Tu stai in giardino. In casa non devi metter piede, vieni solo per pranzo e cena”. Lei si adattò e diventò la più grande giardiniera che abbia mai conosciuto. Entrò in casa unicamente per partorire i due figli. Viveva tra milioni di garofanini e fragoline. Aveva 300 limoni che sembravano monumenti, tirati su mettendo nei vasi le ceneri dei camini e un mestolo di acqua piovana preso da un vascone dove finivano le lettiere di pollai, conigliere e stalle».

Come si fa a suscitare questo amore per la terra nei bambini di oggi che vivono in condominio?
«Deve pensarci la scuola. Nell’asilo che Gianni e Marella Agnelli hanno donato a Villar Perosa, in memoria del figlio Edoardo, ho chiesto di poter mettere gli orti da far coltivare agli alunni dai 2 ai 6 anni. La direttrice didattica ha subito detto sì. Una fortuna: di solito le maestre dicono sempre no. Dipenderà dal fatto che lì le insegnanti sono di schiatta barbetta».

Valdesi?
«Esatto. Tra i valdesi della Val Pellice e della Val Chisone il predicatore con la barba, anziché padre, viene chiamato barbet. Sono gente meravigliosa, i barbetti. Per cultura e civiltà, a noi cattolici ci mangiano in insalata. I Savoia tenevano solo barbetti per casa, dagli amministratori all’ultima delle cameriere, perché non rubavano neppure un fazzoletto».

Da piccolo lei ha avuto anche il pollaio.
«Sì, con 40 pulcini. Ma un figlio giardiniere non piace a un padre molto cacciatore e molto severo. Così fu deciso che una notte arrivava la volpe. La diffidenza che nasce in un bimbo per un genitore che fa una cosa del genere non basta una vita a cancellarla. Però insegna a vivere».

Poi ha trovato un padre nella professione: Russell Page.
«Gli devo tutto. Era un autodidatta senza laurea, senza pezzi di carta, seguace di San Francesco. Un dilettante capace di imponenti architetture ma anche fedele alla modestia delle sue violette. L’8 gennaio 1970 accettò di vedermi a Torino, dove si occupava di Villa Frescot. C’era stata una nevicata di 40 centimetri e non poteva lavorare in giardino. Mi ricevette in fondo a un salone semibuio. Timido lui, timido io. Alla fine mi disse: “Venga a lavorare da me in Inghilterra”. Le nostre erano conversazioni quasi fra muti su natura, architettura, vita. Il sottinteso era più importante del detto. È sepolto sotto i faggi nel Gloucestershire. Ma continua a vivere nei suoi giardini. I maestri non muoiono mai. I maestri, stanchi, riposano soltanto». È stato anche allievo del famoso paesaggista brasiliano Roberto Burle Marx, nipote del filosofo di Treviri.

È per questo che tra i suoi committenti le manca Silvio Berlusconi?
«No, è per un motivo molto più apprezzabile, che un giorno mi è stato spiegato dallo stesso Berlusconi. “Sa”, mi ha detto, “io non posso avvalermi del suo lavoro, perché ho un giardiniere di fiducia che era mio compagno di classe alle elementari e io non lo abbandonerò mai”».

Ma lei avrebbe messo i cactus in Sardegna per l’arrivo di Putin?
«Non oso pensarlo».

E avrebbe fatto legare i limoni alle piante col filo di refe per il G8 di Genova?
«È un vecchio gioco da principi banchieri illuminati, molto scenografico. Lo facevano anche i Medici».

«Il vero giardiniere non si arrende», assicura la copertina del suo libro. Invece quello falso quand’è che s’arrende?
«Subito. La via maestra per stufarsi è seguire le mode. Il giardino si vendica. Page consigliava di mettere tante piante: “Molte resteranno, molte scompariranno”. Mia nonna diceva: “Si perde un albero, non si perde il campo”».

Parliamo del prato, croce e delizia di chi crede di possedere il pollice verde.
«Va sopportato. Non è possibile averlo come in Inghilterra. Le erbe infestanti non devono diventare un’ossessione. Basta con questi campi da golf smeraldini ma inquinatissimi, ottenuti buttando giù veleni di qua e di là. Ricordo che Donato Sanminiatelli guardava il giardino di San Liberato, che aveva seminato sulle rive del lago di Bracciano, ed esclamava in toscano: “Il mi’ davanti è sporco. E me lo tengo così”».

Potrebbero dirlo molti sindaci...
«In Italia il giardino pubblico è un dramma. Lo trattano in maniera indegna. Pensano solo a riempirlo. Invece bisogna tenerlo pulito e avere il coraggio, la sera, di chiuderlo a chiave, affinché l’indomani possano ancora goderne i bambini e i vecchi. La demagogia del giardino aperto, dove i drogati gettano le siringhe e i pitbull scorrazzano, è da imbecilli. Ma vanno evitati gli eccessi. Il Parco reale di Racconigi resterà chiuso quattro mesi. C’è dentro l’esercito che sta lavorando per portarlo a sicurezza dopo la nevicata. Si rende conto? L’esercito. Taglieranno tutto affinché un ramo non cada in testa ai signori visitatori. I grandi alberi con le loro forme affascinanti spariranno. Non ha senso, santo cielo! Questo mondo deve capire che certe cose non sono sicure. Cosa vogliamo fare perché i bambini di Venezia non finiscano in acqua? Recintare il Canal Grande? Provi a mettere uno scalino in un aeroporto americano: ne vedrà di passeggeri che cadono per terra. Ormai la gente non sa più nemmeno che cos’è un gradino. Non farebbe prima a imparare che dalle scale si scivola?».

Qual è il suo albero preferito?
«La davidia involucrata. Deve il suo nome a padre Armand David, un missionario e naturalista francese che la trovò in Cina nella seconda metà dell’800. Me la regalò un vivaista che non riusciva a venderla. Da noi si chiama albero dei fazzoletti, perché fa delle lunghe brattee bianche che assomigliano appunto a fazzoletti. Io sono nato amando il rosso e morirò amando quello. Persino nella stilografica metto inchiostro rosso. Ma in questo momento il colore che preferisco è il bianco. È anche vero che il grande giardiniere finisce per guardare solo il verde delle foglie, e il dietro delle foglie, e la forma delle foglie. I fiori diventano per lui dei simpatici disturbi».

Ho sentito dire che agli esponenti dell’intellighenzia di sinistra con casa a Capalbio non ha voluto piantare i rododendri.
«È così. Il rododendro è un’ericacea, parente del mirtillo. Quindi va bene in Trentino, non in Maremma. Dove viene l’uva, che non cresce dove c’è il mirtillo, ci vogliono le rose, i rosmarini, le lavande».

Che ci fanno le palme nei giardini della Lombardia?
«Sono esotismi».

Accettabili?
«Certo. Piacevano molto anche ad Agnelli, quantunque ci scherzasse su con una delle sue battute vescicanti: “Dove alligna la palma, là finisce la civiltà”. Non c’è niente di peggio della pulizia etnica, anche in giardino».

E i bananeti nei giardini del Veneto?
«Idem. Ho l’unico bananeto del Piemonte. Fa dei caschettini che sembrano la chioma di Caterina Caselli. Ma in Piemonte sono un esotismo anche i miei 2.200 ulivi».

In giardino devono sempre trovar posto anche le piante da frutto?
«Sì, a cominciare dai cachi, che maturando con i primi freddi diventano caviale per gli uccellini. Poi meli, peri, ciliegi. E il beato cotogno / che di poco ha bisogno».

Sergio Saviane mi raccontava che a Villar Perosa il giorno delle nozze di Margherita Agnelli, primogenita dell’Avvocato, trovò i cancelli della tenuta spalancati alle 7 del mattino, entrò senza che nessuno lo fermasse e vide che, a parte qualche pino, nel parco erano piantati cachi, meli e peri, «tutta roba pronta per andare ai Mercati generali di Torino», diceva. «Dietro la villa c’era addirittura un campo di grano: il becchime per le galline. E le serre: i fiori per il matrimonio». Esagerava?
«No davvero. Villar Perosa è un luogo di eleganza autarchica. Nulla dà più gioia del portare in tavola i propri frutti, le proprie insalate. Anzi, con donna Marella abbiamo ridisegnato anche il cimitero, là dove tutti ormai stanno: Giovannino, Edoardo, l’Avvocato... Al posto dei pini malati, abbiamo piantato meli».

Che c’entrano con la morte?
«Niente. Ma nei giorni dedicati al ricordo dei defunti sono carichi di piccoli pomi. E nello stemma di Villar Perosa sono disegnate tre mele».

Ha mai visto Gianni Agnelli con guanti e cesoie?
«No. Se ne scusava col suo humour abituale: “Non sono abbastanza vecchio per diventare un bravo giardiniere”. Però sia che si trovasse al Frescot sia che si trovasse nella residenza di Calvi, in Corsica, la prima cosa che faceva era passeggiare in giardino».

Lei accetterebbe di lavorare per qualsiasi cliente?
«Tranne quelli antipatici».

Ne ha avuti?
«Sì. Ma il rapporto non ha retto. Devo dire che sono stati più numerosi quelli esigenti».

Per esempio?
«Il principe Saddrudin Aga Khan, scomparso l’anno scorso. Aveva la passione dei prati fioriti. Mi ha fatto diventare matto. Voleva i narcisi, le camassie azzurre, le carote bianche. Voleva l’erba com’era. E tanti, tanti papaveri. È difficile averli quando uno li vuole, i papaveri. Vengono solo sulla terra smossa. In pratica bisogna rifare il prato ogni giorno. Ho faticato cinque anni per ottenere un prato fiorito che dura un mese. Questo dimostra che si può fare un eden anche senza forsizie. Non bisogna aver paura della semplicità in giardino».

Qual è il giardino più bello d’Italia?
«Quello di Ninfa, non lontano da Roma, cresciuto dall’amore di tre generazioni della famiglia Caetani».

Perché da noi i giardini sono recintati con reti metalliche, siepi, muri, mentre in America si aprono direttamente sulla strada?
«Perché da noi c’è dispetto per il vicino, anziché rispetto. Non dimentichiamo che gli americani denunciano i loro averi al fisco sulla parola».

È lecito recidere i fiori per farne dono?
«Sì».

Soffrono le piante?
«Sicuramente».

Lei ci parla insieme?
«No, non ci parliamo. Ma ci vogliamo molto bene».

Come mai consideriamo così importanti le radici degli alberi e così poco quelle degli uomini, spesso costretti a lasciare la terra dove sono nati?
«L’albero non può difendersi. L’uomo sì. E purtroppo parla, anche».
apricot26
00martedì 16 giugno 2009 13:59

Apperò! [SM=x718544]
Grazie Capa!

Ti confesso che il titolo mi aveva tratto in inganno, credevo l'avessi intervistato tu [SM=x718536] (proponilo al tuo capo...)
Silviaviola
00martedì 16 giugno 2009 14:31
Grazie Capa, l'ho trovato molto interessante.. [SM=x718569]
Scatolina75
00martedì 16 giugno 2009 15:34
[SM=x718599]

bello.........
velenissima65
00martedì 16 giugno 2009 21:24
si capisce bene l'esperienza maturata,ma continua a essere evidente,almeno per me, la falsa modestia. continua a non essermi particolarmente simpatico....
xypod
00mercoledì 17 giugno 2009 13:11
Vel, anch'io lo vedo così, la modestia non è il suo forte [SM=x718570] ma di sicuro c'è da imparare su altri fronti. Per una volta l'intervista è stata fatta in modo informato e intelligente, in modo da renderla interessante e ricca. Insomma, mi piacerebbe saperne fare una così [SM=x718599]
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